Leonardo Sciascia raccontato da Roberto Roversi

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“Il tempo dei monti furenti e dell’amicizia fantastica”

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   Ci sono persone che quando se ne vanno, lasciano un vuoto, e se piangi non te ne vergogni: persone come Leonardo Sciascia o Gesualdo Bufalino, Tonino Guerra, Alberto Sughi, Andrea Zanzotto…e ora Roberto Roversi.

   In questa stagione – non solo politica – scostumata e volgare, Roversi era, per il suo rigore e la sua coerenza, un esempio di quell’Italia di minoranza che non “molla”, non cede: irriducibile, mite e paziente, ma anche determinata e gonfia di quello sdegno e pudore che ti fa dire: “Perché?”, e soggiungere, come lo scrivano di Melville: “Preferirei di no”; quell’Italia che continua a tenere accesa una piccola, preziosa, fiammella. Che poco conta, nei momenti di grande luce, ma è importantissima quando il buio è assoluto. Dedicati all’amico Tonino Guerra, Roversi ha scritto alcuni versi: “…Inventore di ombre, di soli, di erbe/distilla alchermes stregato/per vincere il dolore/e rendere meno faticosa, e più degna/la speranza”. Potrebbero essere benissimo versi di Guerra per Roversi.

   Anni fa, l’Associazione degli “Amici di Leonardo Sciascia”, ha curato la pubblicazione di una “cartella” di cento esemplari, “Il Clarino”, con un’acquaforte di Nunzio Gulino e un testo di Roversi. Parla di Sciascia, ma anche di sè:

    “Sciascia, un grande uomo isola, secondo la bella (giusta) definizione di Alfonso Gatto,del 1973, dedicata a Gulino, che ha schegge luminose di segni molto vicine alla scabra, e talvolta lucidissima scrittura di Sciascia (ma vedremo). La prima volta mi chiese se la signora Roversi, moglie a Orsi, capo stazione arrivato a Racalmuto, tempo prima, da Bologna, era per caso mia parente. Sì,era sorella di mio padre.

   Ne trasse un sorridente auspicio per il nostro incontro e per una buona amicizia. Poi nel 1954 ebbe la buona attenzione e la grande cortesia di accogliere nella serie di libretti di poesia che si apprestava ad avviare, una mia raccoltina; che uscì affiancata a Paolini e a Romanò. Negli anni seguenti, durante i suoi viaggi sempre più frequenti verso Milano o verso Torino, spesso si fermava per un giorno o anche solo per una mezza giornata a Bologna. Ricordo, a questo proposito, che nel 1965, ritardando l’invio di un suo intervento per “Rendiconti” (la rivista che allora curavo), si scusava ma spiegava di affondare, in quel momento, oltre che nei malanni, nell’inedia; e di essere proprio a terra. Mi ci vorrebbe, precisava, un bel viaggio, lungo, spensierato, e un bel soggiorno a Bologna, città per me straordinariamente riposante. Mi lusingò molto,poi,l’aggiunta che volle dedicarmi, sostenendo che la città, in effetti, si riduceva alla mia libreria antiquaria e alla mia compagnia.

   Mi scuso, per queste notazioni certamente troppo personali, se rivisito con la memoria e con i sentimenti, dopo tanto tempo, le vicende di un rapporto che mi fu caro. Ma in sintonia, e in attenta vicinanza culturale con i giovani che erano impegnati intorno alla rivista “Officina”, credo di poter dire si sentisse fin dai primi tempi. Per esempio,nel 1956, rimandandoci in redazione l’ultimo paragrafo della sua nota sulla Resistenza, precisava di non sapere se aveva saputo in qualche modo rispondere al nostro intendimento. Ho trascritto la sua ulteriore annotazione: “comunque, se lo ritenete opportuno, tagliate o aggiungete senza riserve, perché mi pare, in ogni cosa, di trovarmi d’accordo con voi e con “Officina”.

   Mi chiedeva anche libri: dal catalogo che la libreria periodicamente distribuiva oppure come ricerca diretta. Ricordo che una volta chiese di ricercare per lui il volume di Solinas su la “Literatura española, siglo XX” di Pedro Salinas, edita a Mexico nel ’41, perché stava curando, con Bodini, la pubblicazione di una “biblioteca mediterranea” di poesie e saggi; e mentre il primo volume era dedicato a Cernuda, il secondo voleva che fosse dedicato a questo poeta.
Quindi un bel rapporto con Sciascia, durato quasi vent’anni, dai primi anni ’50 alla fine degli anni ’60. Per natale ci scambiavamo, bene augurando, lui la frutta martorana, io il certosino bolognese, un dolce rustico e locale. Poi la sua progressiva notorietà e autorità,e le vicende politiche turbinose e talvolta devastanti,un poco ci separarono (naturalmente) e lentamente ci allontanarono. Ho parecchie sue lettere non solo di circostanza.

    A proposito di luce: l’occhio (l’occhiata) di Sciascia era sibillino (così a me pareva), come tendesse a raccogliere le cose, le parvenze sfumate, le ombre, dai margini della realtà o del campo visivo, per radunarle al centro e lì fermarle per un momento e dare luce e renderle, secondo un proprio avviso, luminose,magari ancor più incisive, insieme all’oggetto principale già individuato. Mi inducono a questa deduzione,e in qualche modo mi confortano, alcune sue lucide scritture in merito alla fotografia, ad esempio.

   Il suo modo di guardare (direi, di far filtrare l’immagine) con gli occhi socchiusi e la testa un poco reclinata, quasi a sottrarsi a uno scontro diretto – non per impazienza, ripeto, o per qualche intima incertezza – ma proprio per esercitare, all’inverso, la pazienza del guardare e osservare e accarezzare con lo sguardo/mano, prima di dedurre, concludere un qualche personalissimo giudizio. E quel suo fumare e fumare, era come mettere (secondo me) e collocare l’obbligo della sfumatura in ogni esame diretto di una immagine; una leggerissima nebbia attraverso la quale far filtrare la luce o il riverbero dell’immagine; come a impolverarla appena un poco, insalivarne la lucentezza. Per il fastidio, o la preoccupazione, del troppo di brillantezza, di una brillantezza da riproduzione su carta patinata. Come (ancora) volesse (dovesse) alitare adagio e garbato sul vetro della finestra prima di osservare in dettaglio il panorama – o quel particolare individuato su cui indugiare o tornare a indugiare. Corrispondeva (sempre a mio parere) il suo guardare al suo parlare; che era di tonalità lineare e, benchè chiaro e preciso, di una lentezza di grande armonia, come dire?, un poco arrotolato intorno ad alcune consonanti “musicali”. Non saprei adesso ricordare quali, ma ho nell’orecchio ancora lo svolgersi delle sue parole. Era un bel parlare,ad ogni modo, appena sottosegnato dal regionalismo, ma quieto, torno a ripetere,nel mio ricordo. Un amorevole suono. Tanto che già allora (e anche adesso, senza credere Sciascia un santo di pazienza) ,già allora pensavo che non fosse capace a contenere ira o violenza o sguaiataggine di sorta e che anche le sue parole più dure non fossero tali da essere destinate a trafiggere una persona intera, magari solo per un momento. In ogni caso, Sciascia, a definirlo tutto intero, lo vedo ancora, laggiù in Sicilia (la terra del sole), con la faccia quasi contro il vetro di una finestra,infreddolito,a guardare la neve che cade,che cade ed è trascinata subito via da un vento; dal vento. Come mi raccontava in una sua lettera (“e poi dicono che la Sicilia è l’isola del sole”). Un personaggio cecoviano.

   Così Gulino, per me, sta bene vicino a Sciascia. Possono camminare insieme. In Gulino, anche solo riguardando le riproduzioni delle sue acqueforti, è come sentire cantare sottovoce le muse. Il suono lontano, e vibrante, del clarino. Oppure, direi, le omeriche sirene che tentano il cuore e la mente d’Ulisse con velenosa dolcezza. Tutto è (sembra) sobriamente e stupendamente definito ,deposto nella memoria,nella storia esistenziale, e nel segno appena tracciato, scalfito e motivato; eppure è come se un leggerissimo brivido ,solo percepito con grande attenzione e grande emozione, sorvolasse le sue lastre,i segni; o quella lastra,quel segno; preavvertimento di un atto, un gesto,un moto,un grido, un suono,un sorriso di misterioso richiamo. Tutto è fermo,sembra; come concluso dopo la lunga fatica dell’opera (sull’opera); eppure tutto insinua e preannuncia la solitaria dilacerazione di un’armonia che non può essere mai di lunga durata. L’attesa dell’esplosione,l’attesa dell’urlo della farfalla. (Quel sentimento incombente che soprassiede anche alle pagine più furtive di Sciascia). Mi sento invitato, guardando e sfiorando, a un lungo meditare,che scalza via anche il sonno. E ho ricevuto l’inquietudine (sana) che mi invita e mi aiuta a cercare dentro di me; in confronto alle cose del mondo. Questo grumo di palpiti riflessivi riesco a dedurre, da un’opera complessa e insigne, semplicemente.

    Per un periodo, Roversi scriveva molto per i giornali della sinistra, e in particolare “l’Unità”, “Il Manifesto”, “Rinascita”. Non so se fosse comunista, ma certamente per il PCI votava. Del resto a Bologna per anni quel partito era sinonimo di buon governo: Giuseppe Dozza, Guido Fanti, Renato Zangheri, Renzo Imbeni…poi fermiamoci.

    In un articolo per “Il Manifesto”, saranno stati gli anni ’70, Roversi cita dei versi di un poeta francese, anche lui un passato di resistente ai nazisti nel maquis, René Char, il 142esimo canto de “Feuillets d’Hypnos”: “Le temps des monts enragés/et de l’amitié fantastique”, che nella raccolta “Poesia e prosa” pubblicata nel 1962 da Feltrinelli Giorgio Caproni traduce: “Il tempo dei monti furenti/e dell’amicizia fantastica”.

   Splendida immagine, come solo la poesia e i poeti sanno dare. La sua mitica libreria antiquaria, “la Palmaverde” era un luogo magico; e fantastici quei cataloghi, che compulsavi di avidità e maledicendoti: perché per un libro che riuscivi ad accaparrarti ce n’erano dieci altri che lasciavi con la morte nel cuore; e la gioia quando arrivava finalmente il pacchetto, confezionato in modo impeccabile: perché Roversi aveva una maestria e una perizia tutta sua nel confezionare i pacchetti con dentro i libri, ed erano semplicemente perfetti…

   Ancora Sciascia nelle parole di Roversi: “Sempre ci siamo incontrati a Bologna. Fumava come un turco (fumavamo come due turchi) ma con una sobria indolenza,senza avidità(senza avidità di fumo) come corrispondendo al fumo. Talvolta radunavo qualche amico, per il ristorante; poi,anche soli a parlare,in libreria,con la stanza via via piena,appunto,di fumo. I primi tempi era cauto – non con me né per qualche sospetto o timidezza; ma perché – credo – fosse quello il suo modo, un po’ contratto, di perlustrare il territorio in cui si muoveva. Anche le persone intorno, naturalmente; ma poi,soprattutto,la città, le strade; quella strada; le librerie(quella libreria), la luce(quella luce).

   Le fantastiche amicizie, appunto; che aiutano a sopportare questo tempo di monti furenti che sembrano non passare mai.

Valter Vecellio

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